Dopo 159 ore e 33 minuti di gara, 454 chilometri, 32.323 metri di dislivello positivo, 1h38 di sonno ogni 24 ore, 50.919 kilocalorie bruciate secondo la polizia (molte di più secondo i sindacati), ecco alcuni episodi notevoli di questa peregrinazione alpina sul Tor des Glaciers conclusa al 14° posto.
I miei occhi si chiudono per la stanchezza, sono quasi le 22 nella camera condivisa di un centro vacanze che ospita i corridori della Pierra Menta, la mitica gara di ski alpinismo disputata in coppia. Un tocco sullo schermo dello smartphone seguito istantaneamente da una mail di conferma mi riporta nella follia del TOR. Da cinque anni, da quel TOR des Géants concluso nel 2019 in 98 ore, so di aver ottenuto il «ticket d’oro» per iscrivermi al livello superiore, il TOR des Glaciers (bisogna aver terminato il TOR des Géants in meno di 130 ore per qualificarsi).
Il menu? Un’orgia montana lunga 450 chilometri per 32.000 metri di dislivello positivo, cioè quattro volte l’Everest, nella Valle d’Aosta italiana. Una sfilata di paesaggi mozzafiato, un Graal supremo, un buffet a volontà di sassi, valzer di pendii tecnici, una successione di passi oltre i 3000 metri, temperature che superano i 30 gradi e scendono sotto lo zero, raffiche oltre i 100 km/h da affrontare con neve o pioggia a seconda del caso…
Il tutto, ovviamente, senza segnaletica: sarebbe troppo facile. Le nostre armi? Scarpe da trail, bastoncini, GPS, zaino da trail e coraggio. Si arrangi con questo! Se l’è proprio andata a cercare comunque! Anche preparati, non si può immaginare dove si mettono i piedi. Nelle tre basi vita si assiste a uno sfilare di individui dalla camminata da morti viventi: «The Walking Dead» in Salomon e Hoka dove i bastoncini sono le uniche armi per contrastare la gravità.
Impossibile riassumere integralmente l’avventura vissuta in sette giorni: troppi dettagli, una moltitudine di incontri, molti momenti di solitudine, molte ondate di euforia individuale e collettiva.
Questa gara è folle, violenta e brutale! I suoi partecipanti pure! La sensazione è di vivere il proprio film, un western dei tempi moderni con personaggi iconici e battute cult. Dire che mi è piaciuta sarebbe troppo riduttivo per questa epopea: in realtà, l’ho A-D-O-R-A-T-A! E ne ho tratto un insegnamento definitivo su di me: il mio piacere cresce con la difficoltà. Il TOR des Glaciers è una successione di istanti fugaci di complicità, calore umano, profonda solitudine, disagio, gioia. Le emozioni sono amplificate, quelle belle come quelle meno belle.
Tor des Glaciers: i Brettoni sono ovunque
19:40: linea di partenza. Fa strano essere così pochi per una gara così grande: solo 168 folli si scrutano, si guardano e si confrontano 20 minuti prima dello start. Fa fresco, parto in t-shirt da running e decido di inviare un messaggio nel gruppo WhatsApp di famiglia per avvisare che parto per la montagna in «modalità aereo» sul telefono. Mio padre risponde subito «Dove sei, allora?», non ho la forza di iniziare una conversazione a pochi minuti dalla partenza.
20:00: si parte verso l’ignoto! L’emozione è lì, quando di solito non mi emoziono così. Finalmente ci sono! Odio gli ultimi giorni prima della partenza in cui devo modificare le mie abitudini, solitamente più dispendiose in energia. A Dolonne, sull’altro lato della Dora Baltea, scorgo una piccola bandiera bretone applicata allo zaino.
- - «Ehi! Ciao! Sei bretone?» ho gridato verso di lui, troppo contento di vedere un compatriota celtico nella Valle d’Aosta.
- - «Sì, di Rennes, e tu?»
- - «Vannes, Morbihan, da noi a sud c’è più sole», mi vanto, troppo fiero della mia città natale.
La conversazione prosegue con banalità di gara. Si chiama Fabien, cognome Danet, pettorale 4176, il mio è il 4175.
Si sale forte, la notte è calata, la nebbia e l’umidità ci accompagnano. Il ritmo mi sembra pazzesco per una gara di 450 chilometri. Mi aggrappo, supero qualcuno, penso di essere dieci volte troppo veloce ma, come un corridore che corre a testa bassa, non rallento, troppo contento di scorrazzare in questo scenario italiano. I primi due rifornimenti di Maison-Vieille e del Rifugio Elisabetta non mi vedono indugiare (secondo grado).
Obiettivo: Col de la Seigne, frontiera italo-francese. Un tedesco, Volker Fohrmeister, è con me, iniziamo a parlare, ci perdiamo brevemente andando troppo a destra e, una volta tornati sul sentiero carrozzabile, il tipo prende il suo ritmo. Un’esplosione spaziale, troppo veloce per me, ben oltre le mie possibilità. Mantengo il passo per 15 minuti per cortesia, giusto il tempo di scoprire che questo trailer punta al podio! Iscritto a tutte le edizioni dal 2021, il germanico è doppio Finisher su questa distanza. Lo lascio andare: finirà secondo, 18 ore prima di me.

Il Buono, il Cattivo e il Brutto
Al colle ci prende un vento che gela tutto, il prosieguo dell’itinerario, il Col des Chavannes, è alla nostra sinistra, tutti lo sanno e lo conoscono ma con vento, umidità e nebbia la faccenda cambia. Le goccioline nell’aria si riflettono nei fasci delle nostre frontali e ci accecano. Subito la natura umana ci restituisce il suo lato meno lusinghiero: quello dei lavativi e dei approfittatori. Molti tirano fuori il GPS, si fermano, gelano, cercano la traccia mentre altri rallentano astutamente dietro, mani nelle tasche, aspettando che si riprenda la marcia verso il giusto percorso. Ho l’impressione di essere immerso in un western contemporaneo, un remake de «Il buono, il brutto, il cattivo» di Sergio Leone. Per ora vedo solo buoni e cattivi, non ancora i brutti. In quel preciso istante mi sento perfino parte della categoria «troppe buono, troppo stupido». La battuta di Clint Eastwood mi rimbomba: «Vedi? Il mondo si divide in due categorie: quelli con la pistola carica e quelli che scavano. Tu scavi». Qui si tratta di quelli che lavorano e si fermano nel vento per trovare il percorso e quelli che approfittano del nostro lavoro, mani al caldo, e seguono.
Una volta superato il colle, usando il nostro impianto di risalita manuale, si passa in discesa! Evviva! è la prima discesa del TOR 450 e fa bene! Il ritmo non cala, sono quasi alla stessa velocità di un’uscita di due ore ma spinto dagli altri pettorali, non me ne preoccupo. Dopo mezz’ora sento già piccoli dolori agli estensori, in basso alla schiena e ai quadricipiti. Pazienza! Yalla! Tengo il ritmo.
Tuttavia, un’ora dopo, emerge il lato oscuro della forza del trailer: qualcosa non va, ho dolore, è la prima notte. Non mi appartiene partire così forte, mi conosco e sono più vicino a una staffetta con motore diesel e serbatoio grande che a una Lamborghini lucida con turbo. In quel momento mi sdegno interiormente: «Ma sei scemo? Sai che hai 450 chilometri da fare in meno di 190 ore con 32.000 metri di dislivello?». Decido di calare il ritmo e proseguo, da solo per le vie di La Thuile, città deserta alle 2 di notte dove spero un rifornimento che non esiste (mi insegnerà a non preparare la gara lasciando solo sorprese, buone o cattive).
Dentro, voglio dormire e decido che lo farò al prossimo rifugio Deffeyes, ma arrivando lì l’atmosfera è più da banchetto gallico che da sonnellino. Imito quindi i miei compagni, la maggior parte già Finisher di questa faticata. Scopro un piatto di pasta pomodoro, sono le 4 del mattino, lo ingoio e riparto più felice di quando sono arrivato.

L’Americano
Dopo un balcone senza fine incontro un americano con un’eloquenza molto americana: Mister Michael Hewitt. Suona alla grande! L’accento sembra uscito da un film hollywoodiano, mi godo la conversazione, adoro gli USA, la loro cultura e le loro profonde contraddizioni.
Michael ha appena terminato la mitica Hardrock, una traversata di 100 miglia sopra i 4000 metri in Colorado. Il tipo è straordinariamente simpatico, parliamo della «Courtney fucking awesome Dauwalter», la migliore donna al mondo nell’ultra-trail. Vorremmo che lei bastonasse gli uomini vincendo un ultra in assoluto (spoiler: è quasi successo a Nizza il 5 ottobre, chiudendo 2° assoluta). Finalmente mi diverto in sua compagnia dopo momenti molto complicati all’inizio di gara a causa dei dolori e del mio cattivo umore. Immerso in dialoghi degni di Quentin Tarantino, mi fa bene imprecare e punteggiare le frasi con un «fucking shit» o «big asshole», fa bene anche in inglese, da buon francese che si lamenta. Per ora mi pesa il tratto troppo corribile e non abbastanza alpino. Michael è d’accordo con me, forse per non contraddirmi... Il mio americano preferito, che dice di non sentire bisogno di dormire grazie al jet-lag, correrà per oltre 48 ore senza dormire prima di crollare completamente, tutto vestito su una barella alla base vita di Cogne. Grande tentativo «The Great Mike»!
Tintin e Milù
Angelo e demone. I due convivono sul bordo della mia spalla come Milù nelle avventure di «Tintin in Tibet», ognuno con i propri argomenti.
- - «Ma seriamente Pierre, abbandona! Metti la freccia a destra e fermati! Abiti praticamente vicino, il comfort, il caldo e un buon letto ti aspettano..."
- - Dall’altra parte, il tono è diverso: «Dai! Si riparte! Vamos! Come direbbe il tuo idolo Rafa Nadal, non mollare! Si va fino alla fine, ancora e sempre, con forza e stile! Un’impresa simile senza difficoltà non avrebbe lo stesso sapore!"
Ogni ultra-trail che ho tentato di finire (finora tutti), comprende questi momenti di dubbio: lo so bene ma questo è fuori categoria, il carico fisico e mentale è infinitamente più elevato. Il mio corpo reggerà? Rivedrò Courmayeur? Le trappole sono molte e sarebbe irrispettoso verso il TOR des Glaciers affermare a metà gara che «lo finirò». Il mio «bad mood» dell’inizio si invertirà fortunatamente con il procedere del tracciato, sempre più bello e tecnico.

Rifornimenti: stop ai box
Invertire la cattiva spirale, più facile a dirsi che a farsi. Per fortuna le tre basi vita sono l’occasione per ritrovare il nostro «grosso zaino» blu marchiato «TOR des Glaciers». Questi stop ai box sono una benedizione. Un’ora mi basta per cambiare pneumatici, aggiustare la carenatura e fare il pieno. Scarpe di ricambio, calze da trail asciutte, un piatto di pasta, cioccolato, zuppa e macedonia mi rimettono a nuovo. Provo una doccia, l’acqua è fredda. Mi rivesto, disincantato, chiedendomi se non sia una prova supplementare in stile «Koh Lanta» inventata dall’organizzazione. Mi immagino la scena durante il loro briefing pre-gara: «Ok, per la base vita di Cogne proponiamo di far credere che abbiano accesso a una doccia calda, quindi mettete cartelli «doccia» ovunque in palestra e, ovviamente, Maurice, ricordati di staccare lo scaldabagno almeno 24 ore prima, per essere sicuri che non sia nemmeno tiepida. Non esageriamo! Hanno fatto solo 160 chilometri a questo punto».
"Allora forse..."
L’atmosfera crepuscolare del cielo contrasta con la freschezza ritrovata. I dolori svaniscono insieme ai dubbi sulle mie capacità. Mi rimetto in sesto e inizio a sognare l’arrivo: mi dico «Allora forse...», la celebre frase di Patrick Montel durante l’ultima frazione di Floria Guë nel 4x400 femminile della Francia ai Campionati Europei di Zurigo 2014. Dopo una frazione mancata e contro ogni previsione l’atleta francese recupera tutte le concorrenti nell’ultima curva e vince il titolo, smentendo il commentatore che prima aveva decretato: «Non ci sarà podio per il 4x400 francese perché da qui non si torna», per poi lanciare quel piccolo «Allora forse...» nell’ultimo giro, battuta diventata cult nello sport. Questi exploit mi danno carica, mi permettono di sognare e mi convincono che nulla è impossibile nello sport e nella vita in generale.
Qui, niente supporter, nessuna effusione verbale da ascoltare né tratti piani: si sale o si scende con, sullo sfondo, uno spettacolo magnifico di stelle cadenti e delle pupille di animali selvatici riflesse nel fascio della mia frontale. Affronto le salite e le discese fino a ritrovare il mio bretone, Fabien, nel cuore della notte. Ovviamente, quando due bretoni si incontrano, la pioggia arriva, per forza... Tutto il mio equipaggiamento asciutto torna zuppo, sono disgustato. La leggera pioggerellina che tanto amiamo in territorio armoricano si trasforma in una pioggia tropicale, senza la temperatura, con vento forte e l’ospite sorpresa: la nebbia. Lì diventa subito meno divertente, anzi proprio spiacevole: stringi i denti, tremi e poi ti perdi. «Ah sì, mi ricordo, qui è sempre complicato, l’anno scorso mi persi per un’ora!», sfuma Fabien, fatalista. Carino. Due bretoni e un italiano a fare giardinaggio alle 3 di notte sotto un diluvio armati dei loro GPS.
- - «Qui, qui, da questa parte! Ah no, scusa, c’è una parete qui, non si passa.»
- - «Si passa da qui, adesso è sicuro!»
- - «Accidenti, no, non qui, doveva essere l’altro bivio che abbiamo visto 500 metri fa.»
L’IN - FERNO! Davvero.
Zupli fino alle ossa, corriamo come polli senza testa, importa poco la destinazione purché i movimenti ci riscaldino! Le raffiche di vento e pioggia ci sferzano il viso e tagliano i nostri polpacci. Siamo in bilico, in alta quota, in una notte diventata nera e già troppo lunga. Poi, miracolo! Un faro nella penombra, spuntato dal nulla: un’oasi, un contrasto difficile da riprodurre: il Rifugio Miserin. La sua musica metal-punk, i giovani gestori dall’aspetto trendy, cuffie da surf ben calzate, ci accolgono nel cuore della notte cucinandoci gnocchi. Fuori ci sono 2°C, dentro 25°C grazie al calore della stufa a legna. Mi sembra di essere in paradiso. Mi spoglio, metto tutto ad asciugare sui miei bastoncini da trail, intorno al fuoco, sul soffitto e cado in un sonno di un’ora. Al risveglio, i miei indumenti da corsa sono asciutti; solo il mio cappello, nonostante fosse abilmente appeso a uno dei bastoncini vicino al fuoco, è completamente fuso! I gestori, sempre svegli grazie al suono dei Metallica, mi spiegano che non hanno potuto fare nulla per salvarlo: quando hanno sentito odore di bruciato il cappello era già volato verso la stufa, carbonizzandosi. RIP.

Orelsan e Indiana Jones
Ovvero la storia di un duo improbabile, antagonista sotto ogni aspetto, a cui mi aggrego per tutta la seconda parte del TOR 450. Colpo di fulmine! Uno vero! Il primo flash che mi ritorna di questi due Daft Punk scatta proprio nel rifugio «metal-punk» di Miserin. Quando arrivo loro stanno ripartendo e penso: «Questi sembrano professionisti, sponsor, appaiono sereni qualunque siano le condizioni». Il primo del duo che incontrerò, Thibaut, mi segnerà profondamente. Dopo una notte sublime in solitaria e un alba assolutamente magica, un prode dal look da Orelsan, con cappellino da running al contrario, martella il sentiero in controsenso. Sotto le sue grandi spinte e quelle devastanti dei bastoncini, i sassi non sanno dove mettersi. La sua velocità in salita è folle, sembra posseduto da qualcosa. «What the f###!», avrebbe commentato Mike, l’americano. Io penso esattamente la stessa cosa nella lingua di Molière. Io scendo dal colle, lui lo risale. Ci incrociamo.
- - «Ehi! Ciao! Non hai visto un cellulare lassù al colle?» mi lancia prima che abbia il tempo di capire bene cosa stia succedendo.
- - «Eh, no…» rispondo debolmente, quasi dispiaciuto.
E il tipo, senza fermarsi, prosegue il suo lavoro con aria determinata come se la sua vita dipendesse da ciò.
IM-PRE-SSIO-NAN-TE!!! Il tipo corre il TOR des Glaciers (450 chilometri e 32.000 di D+), e si aggiunge anche una piccola corsetta per recuperare ciò che ha dimenticato. Lunare! Questo è Thibaut, un epicureo avventuriero già grande Finisher del TOR des Glaciers nel 2023.
Dopo un lungo balcone interminabile (pleonasmo nel TOR) e un’ultima risalita, incontro l’altra parte del duo, Julien, al rifornimento di Retempio, un piccolo paradiso all’esterno e un dormitorio degno de «L’Esorcista» all’interno. Qui un piatto di polenta mi accoglie con un saluto amichevole: «Tutto bene Pierre?». Confuso, appannato, fuori fase e soprattutto pessimo nel riconoscere le persone, gli rispondo cortesemente: «Sì, bene, e tu?» senza capire come facesse a conoscermi. Poi, dopo una riconnessione neuronale, ricordo l’aver visto quel tipo vicino alla mia macchina a Courmayeur. L’avevo incontrato brevemente prima della partenza mentre si contorceva in mutande dentro il suo monospace per preparare meticolosamente i suoi sacchi di corsa e rifornimento. Lì lo vedo bere una birretta al sole in terrazza al rifugio. Tutti i miei principi di nutrizione e idratazione crollano, mentre la mia ammirazione sale. «Che figata quel tipo, beve birrette in gara!». Alto, longilineo, affascinante e con un umorismo leggermente sarcasmo, mi fa pensare a Harrison Ford in scarpe da trail. Questo Indiana Jones o Han Solo potrebbe incarnare il ruolo principale del mio western moderno scritto dai fratelli Coen.
- - «A proposito, non hai visto un tizio con un cappellino al contrario che andava in controsenso?» mi chiede, stupefatto.
- - «Ah sì, quel tipo aveva un’andatura da pazzo, l’ho incrociato», rispondo, ancora sorpreso dalla sua velocità di salita da Kilian Jornet. «Correva con me, ha dimenticato il cellulare al colle ed è per questo che ci è tornato», spiega divertito ma un po’ triste di aver perso il compagno prima di ripartire dieci minuti dopo il mio arrivo.
Sazio, riposato e riscaldato dai raggi del sole, sto per ripartire quando un rantolo sempre più forte proviene dal bosco. Un colosso sudato, volto segnato e sguardo vissuto irrompe. Thibaut! Già lì! L’Orelsan delle montagne è mutato in Chewbacca, il guerriero Wookiee di Star Wars e compagno di Han Solo. Perfetto, il mio duo ideale è formato e il mio film immaginario prende forma: Thibaut e Julien alias Han Solo e Chewbacca.
Un patto segreto
Con loro nulla è più lo stesso: i chilometri pesano meno, i pendii sono meno ripidi, i paesaggi si esaltano e lo spazio-tempo si deforma. Notte, giorno, pioggia, vento, neve: qualunque sia lo scenario, lo affrontiamo col sorriso e insieme. Ci si può mettere una vita a conoscere veramente delle persone; un ultra-trail basta per accelerare tutto. La vera natura umana emerge immediatamente nei momenti difficili e non posso nascondere che ne abbiamo avute più d’una. La prova d’amicizia è stata validata molto in fretta, come su quella cresta interminabile battuta da raffiche oltre i 100 km/h nel cuore della notte. Fame, freddo, vuoto a sinistra, vuoto a destra e una linea da seguire: quella della cresta verso il rifugio Coda. Siamo affamati, un errore di calcolo del dislivello ha prolungato ampiamente il nostro piano. Inferno e paradiso si affiancano nello stesso istante.
Il paesaggio, al confine con il Piemonte, è assolutamente sublime: vediamo le luci di Aosta laggiù in basso ma le condizioni sono estreme e dure, tutte le giacche sono addosso. Impossibile fermarsi a riposare qui: un breve riparo dalle raffiche ci permette comunque di ingoiare un pezzo di panino, probabilmente il migliore che mi è stato dato di gustare. Grazie Thibaut! Senza dircelo, si firma un patto segreto: finire questa prova tutti e tre assieme.
Il freddo si intensifica, la neve arriva, il vento non cala. Si susseguono passi e discese interessandoci gli uni agli altri. Le nostre soste nei rifugi diventano scene di teatro grottesco dove i dialoghi non sfigurano accanto a quelli di Michel Audiard nei «Tontons flingueurs». Ci scoppiamo a ridere ripensandoci. Il contesto si presta: siamo tutti completamente fusi. Ci sfoghiamo tanto sui sentieri che appena troviamo un rifugio diventiamo irritabili alla minima avversità, come dover rimettere scarpe e vestiti bagnati per andare ai servizi a 100 metri sotto il rifugio di «Perucca Vuillermoz». La vincitrice femminile, l’americana Sarah Hansel, con noi in quel momento, si diverte: «Stabilirò un record su Strava per andare a pisciare».

Furto di Pom’Potes
Altro luogo, altra aneddoto: il Rifugio Prarayer e i suoi due «volontari servitori» a metà strada tra Dracula e Frankenstein, uno dei quali, non parlando inglese, ripete qualunque sia la nostra domanda «Yes, of course!». Un rifugio dove la nostra tripla arriva completamente zuppa, sfinita e grigliata, per un’ora di sonno percepita come cinque minuti. Al risveglio ci viene proposto un colazione completamente bizzarra: minuscole fette biscottate primo prezzo confezionate a due con una microscopica porzione di marmellata industriale e una lillipuziana fetta di torta valdostana larga quanto un dito che dovremo richiedere quattro volte senza che aumenti di spessore...
Silenzio totale. Poi un corridore perde le staffe, il nostro bretone Fabien: «Ma queste biscottate non riempiono nulla! Dovrò mangiarne almeno 50 prima di ripartire!», esclama seriamente. Si precipita a fare la sacca per recuperare il tempo. Due minuti dopo aver sbattuto la porta del rifugio, ritorna con aria sbigottita e molto preoccupata: «Chi ha rubato i miei Pom’Potes? Non li trovo più, li avevo messi proprio lì, me lo ricordo benissimo! E poi sono delle composte energetiche speciali fatte apposta!», si incavola molto sul serio. Nessuno reagisce: erano nelle sue tasche… Questo episodio ci procurerà una grande crisi di risate qualche ora dopo. A proposito, un caffè magari? «Yes of course» risponde il volontario che mette una minuscola caffettiera italiana Bialetti su una minuscola piastra elettrica ausiliaria! Si fa fatica a crederci! Bruciamo circa 15.000 kilocalorie al giorno e la nostra colazione sembra quella di un ospizio.
Tempesta di neve
Era scritto da qualche parte che nulla, assolutamente nulla, sarebbe stato facile su questo TOR des Glaciers. Thibaut, unico Finisher 2023 della nostra cordata di pseudo-avventurieri, lo conferma: «Ragazzi, questa edizione è una cosa da pazzi!». Dopo pioggia, vento e caldo, ecco la neve accompagnata da raffiche di 100 km/h al nostro arrivo al Gran San Bernardo. L’acqua del piccolo lago increspa, le onde sûre la strada sembrano adatte per il kite-surf. La temperatura esterna segna -6°C. L’Hotel Italia ci serve un piatto di lasagne, sono le 4 del mattino e è la nostra ultima «notte». I corpi sono consumati come testimoniano i gridi di dolore di Thibaut quando sua moglie Marion, venuta a darci conforto, gli sostituisce i bendaggi sulla carne a vivo. Sofferenza intensa, stanchezza estrema, esaurimento generale: la gara diventa violenta e brutale ma bisogna continuare, uscire sotto la neve e le raffiche di vento.
I miei piedi si sono gonfiati, difficile infilare le scarpe, però non le stringo più. La neve ci frusta il viso, il comfort e il calore dell’hotel sono alle spalle e bisogna subito aumentare l’intensità per combattere il freddo.
Al passaggio del passo successivo, due italiani sono in difficoltà: sembrano spenti, esausti, storditi dal freddo, smorzati e troppo deboli per continuare da soli. Li sistemiamo tra noi per metterli in sicurezza e rassicurarli. Fa buio pesto, il suolo è bianco, la segnaletica inesistente: ci affidiamo al GPS e alle nostre lampade frontali. Mi immagino nei panni di una squadra di astronauti che esplora un pianeta ostile e sconosciuto e trovo il momento favoloso. Al rifugio più vicino lasciamo i nostri superstiti della notte. Al sorgere del sole capiamo che è la nostra ultima alba: l’atmosfera è gioiosa, la neve si ferma e il panorama dalla Tête de la Tronche è mozzafiato grazie a quella polvere bianca che cosparge le cime. Ci prendiamo il tempo per contemplare lo spettacolo...

La mia fine di gara sul Tor 450
Solo una discesa e è FI-NI!
Varcata la linea d’arrivo a Courmayeur, vedo occhi lucidi e lacrime sulle guance dei miei fratelli gladiatori dei sentieri. È bello. Il presente vale tutte le sofferenze sopportate!

Una enorme pizza innaffiata da una buona birra dopo, i nostri piedi urlano dolore, gli occhi si chiudono da soli, non riesco più a muovere la mano sinistra a causa dei manicotti dei bastoncini: il mio corpo sta pagando il conto di questa estrema difficoltà. Sul lettino del massaggio post-gara crollo, il massaggiatore mi sveglia, mi chiede di girarmi, mi riaddormento subito, lui mi risveglia di nuovo: «È finito, signore», me ne vado vedendo Julien immerso in un sonno profondo sul lettino accanto. Sorrido, è buffo scoprire il suo corpo in uno stato così di stanchezza. Passo il pomeriggio addormentato su una barella con due coperte e la giacca imbottita addosso, eppure non fa freddo...

I giorni successivi la gara si riassumono in tre categorie elementari di attività: mangiare, dormire e sognare, ancora…
© : Organisation torxtrail
Pierre Le Clainche - pettorale 4175